Le origini dell’evasione fiscale in italia

di | Maggio 11, 2021

Le tasse e l’evasione fiscale sono quei temi che da sempre troviamo sui nostri giornali. Chi propone di ridurle per tutti , chi di ridistribuire e chi di aumentarle per certe attività; molte elezioni si sono vinte su questo tema scottante. Molto spesso però, questo tema ha visto quasi tutti i vincitori arrendersi nei confronti di un meccanismo dalle dinamiche tanto complesse quanto dannose: i sistemi di evasione. Ora cercheremo di capire da dove arrivano queste difficoltà nel sistema di tassazione.

Un problema vecchio come l’Italia

Dal punto di vista fiscale, la neonata Italia post unitaria assomiglia in modo inquietante a quella attuale, segno che la continuità storica esercita il suo peso Le origini purtroppo sono avvelenate fin dal principio. Dunque: le tasse erano alte, molti non le pagavano e si scaricava tutto su quelli che già le pagavano, facendo loro pagare di più. Una storia trita e ritrita vero?

Nel 1875, nel parlamento della giovanissima Italia si parla di «insistenti lamentanze» rispetto al sistema fiscale di allora. Un sentimento diffuso sia dalla destra storica che dalla sinistra. «Gravezza, stimolo tanto potente alla frode», sottolinea Depretis, nulla di nuovo per i nostri giorni. Giulio Alessio, uno dei principali studiosi di questioni tributarie, nel 1883 fa valere la sua opinione: «L’elevatezza dell’aliquota e la meschinità del minimum esente dall’imposta, sono le cause principali di dichiarazioni e d’accertamenti tanto inferiori al vero». L’Italia nasce appesantita dal debito pubblico perché deve fare guerre (le chiamavano spese di «costituzione») e costruire infrastrutture («impianto», nel gergo di allora) e così nel primo decennio post unitario le entrate sono, in media, un terzo della spesa.

Per cacciare l’austriaco invasore (che tra l’altro aveva uno dei sistemi fiscali più efficienti d’Europa) si susseguono i «decimi di guerra» che portano il prelievo fiscale italiano a un 10 per cento in più di quello britannico (e non è che all’epoca Londra si tirasse indietro con le guerre). Rispetto al quinquennio pre unitario 1850-1855, nel 1871 un piemontese paga il 42 per cento in più, un lombardo il 130 per cento, un romano il 63 per cento e un napoletano il 125 per cento.

Una cosa va detta a discolpa della giovane Italia: anche negli stati pre unitari le difficoltà nelle tassazioni erano molto sentite . E’ emerso dagli scaffali dell’Archivio di Stato di Venezia, un documento finora sconosciuto autografato da Antonio da Canal, detto il Canaletto. Una legge approvata dalla Serenissima repubblica il 18 aprile 1739 obbliga tutti i contribuenti a denunciare i beni di proprietà da sottoporre a tassazione. Il 27 agosto la famiglia del pittore redige un atto relativo a due immobili, uno in uso, l’altro in affitto, dichiarando da questo secondo una rendita di 40 ducati. La tassa sarebbe stata di 4 ducati, pari al 10 per cento. Ma un nuovo atto del 10 settembre, sempre firmato da Antonio Canal, afferma che nella denuncia precedente c’era stato un errore e la rendita è invece di 80 ducati.

Naturalmente è impossibile capire se Canaletto sia un contribuente modello che autodenuncia un errore involontario, o se invece ci abbia provato denunciando la metà dell’introito effettivo e qualcuno gli abbia consigliato di stare in campana. All’epoca Canaletto ha 42 anni ed è già un pittore di gran fama, magari la Serenissima Signoria sarebbe stata ben felice di dare a tutti un significativo esempio colpendo un evasore fiscale tanto illustre.

E anche qua le similitudini con la contemporaneità sono ben note. Si capisce quindi come il meccanismo abbia radici malate molto in profondità. Se si fa un paragone tra i ruoli fiscali del 1878 e i dati del censimenti del 1881 se ne deduce che pagano le tasse soltanto il 72 per cento dei notai, il 43 per cento degli avvocati, il 40 per cento dei medici e il 20 per cento degli ingegneri, ovvero di coloro che nel censimento si qualificano come tali. Invece tra i «bottegai» (oggi si direbbe commercianti ed esercenti) e i professionisti residenti nelle cinque principali città italiane (Roma, Milano, Napoli, Torino e Genova) risultano iscritti fra i contribuenti il 73 per cento dei primi e il 44 per cento dei secondi.

Nel 1909 si constata che in alcune grandi città «il numero dei contribuenti colpiti dalla imposta nelle categorie dei commerci e delle professioni raggiunge appena il terzo degli esercenti compresi» nelle guide statistiche dei medesimi centri urbani.

I danni derivanti dall’evasione

Non difficile quindi da capire come i danni che derivano da questa evasione siano molto problematici e diffusi in tutto il sistema paese. Il mancato recupero di fondi da parte dello Stato, da impiegare nella spesa pubblica oppure nel finanziamento della crescita economica, comporta da una parte un potenziale contributo all’eventuale deficit pubblico e quindi alla creazione di debito pubblico, dall’altra mancati interventi di sviluppo per la crescita economica stessa.

Per recuperare il debito pubblico lo Stato deve ridurre la spesa pubblica con tagli sul finanziamento alla pubblica amministrazione e quindi diminuzione della qualità dei servizi pubblici offerti e/o all’aumento della tassazione e del prelievo fiscale sui contribuenti con effetto di aumento della pressione fiscale. Oltre a questi gravi danni vi è l’aumento della pressione fiscale sui cittadini contribuenti per cercare di recuperare i fondi evasi. Questo porta a sfavorire l’attività dei soggetti imprenditoriali, oltre che limitare la normale attività di consumo dei consumatori: si può creare un circolo vizioso, generando una situazione per alcuni insostenibile, che spinge sempre più soggetti all’evasione.

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